Mal di schiena: quando ricorrere alla chirurgia?



Mal di schiena:


Quando ricorrere alla chirurgia?



Il mal di schiena lombare (lombalgia) è un problema molto comune, tanto che la maggior parte delle persone ne soffre a un certo punto della propria vita (1). È altrettanto comune sentire che a causarlo sia qualche cambiamento anatomico osservabile dalla radiografia o dalla risonanza magnetica come una discopatia, una protrusione, un’ernia o altri termini medici che incutono timore. In realtà, prima di allarmarsi è bene sapere che questi cambiamenti si osservano spesso anche in assenza di dolore e sono invece associati più all’avanzare dell’età che alla presenza del dolore (2). Infatti solo nel 10-15% dei casi è possibile identificare una causa organica all’origine del mal di schiena, mentre i rimanenti 85-90% sono classificati come non-specifici, ovvero senza una causa identificabile nei riscontri radiografici (3). Per saperne di più sulle cause e i fattori di rischio del mal di schiena invito a leggere l’articolo dedicato a questo argomento.

Essendo difficile nella maggior parte dei casi identificare una causa organica, il trattamento indicato è di tipo conservativo (non chirurgico). Puoi trovare qui un’ approfondimento sulle linee guida al trattamento del mal di schiena. Tuttavia, per quanto la maggior parte dei pazienti migliori in modo soddisfacente senza chirurgia, una percentuale compresa tra l’1% e il 5% non risponde al trattamento conservativo e potrebbe pertanto essere candidata per il trattamento chirurgico (4).

Ma quando ricorrere alla chirurgia? Chi può trarne beneficio?

Per rispondere a questa domanda prendiamo in considerazione le evidenze raccolte in una rassegna del 2018 (5) che ha analizzato la letteratura sull’intervento di fusione vertebrale (l’intervento più comune per il mal di schiena). A questa raccolta saranno affiancate rassegne riguardanti altre procedure chirurgiche indicate per il mal di schiena.
La rassegna è un’indagine scientifica che fornisce un riassunto dello stato dell’arte nell’ambito dello specifico oggetto di studio. Le evidenze sono state raccolte in base alle diverse indicazioni chirurgiche: patologie degenerative (discopatie, stenosi spinali lombari, spondilolistesi), traumatiche (fratture) e metastasi.



Discopatia degenerativa

La discopatia degenerativa è generalmente individuata come la più comune causa di mal di schiena lombare (6). Comprende diversi cambiamenti degenerativi a carico del disco intervertebrale tra cui l’assottigliamento, la disidratazione, la protrusione e l’ernia (7). Tuttavia, per quanto potrebbe esistere un’associazione tra i cambiamenti degenerativi osservabili alla risonanza e il mal di schiena lombare cronico, non ci sono evidenze sufficienti a supportare quest’ipotesi (8). Questo significa che per la maggior parte dei pazienti ai quali è stata diagnosticata radiograficamente una discopatia, la causa del dolore possa essere in realtà da ricercare altrove. Quando però si sospetta che a causare i sintomi sia proprio una discopatia degenerativa, gli interventi più comuni sono: la fusione vertebrale, la discectomia e la sostituzione del disco intervertebrale.

  • Fusione vertebrale: è una procedura chirurgica che consiste nell’unione di due o più vertebre allo scopo di eliminare il movimento articolare (9). È noto però che tale riduzione di mobilità tra i segmenti vertebrali fusi esponga a un maggior rischio di patologie a carico dei segmenti vertebrali adiacenti (10). La più recente rassegna di discreta qualità (11) conclude che la fusione vertebrale non è più efficace di un’intensa riabilitazione per il mal di schiena lombare cronico. Inoltre complicazioni come infezioni, trombosi e lesioni delle radici nervose sono comuni per l’intervento di fusione vertebrale (12).

  • Discectomia: è la rimozione chirurgica del disco intervertebrale o di parte di esso. Viene eseguita quando questo, a causa per esempio di un ernia, entra in conflitto con le radici nervose o il midollo spinale. Sembra che l’intervento di microdiscectomia dia buoni risultati nel breve e medio periodo, ma che questi risultati siano simili a quelli del trattamento non-chirurgico nel lungo termine (13). Infatti la maggior parte dei pazienti migliora senza chirurgia e circa nel 60% di loro si può osservare una regressione spontanea dell’ernia del disco (14). Inoltre gli autori di uno studio retrospettivo del 2018 sul più di 200.000 pazienti (15) concludono che chi ha avuto un intervento di discectomia ha una probabilità 3 volte più alta di subire una fusione lombare rispetto a chi non ha subito una discectomia lombare in passato.

  • Artroplastica discale: è la sostituzione del disco intervertebrale con un impianto protesico ed è stata sviluppata al fine di evitare le conseguenze indesiderate dell’intervento di fusione vertebrale, come la perdita di mobilità dei segmenti fusi e il rischio di patologie dei segmenti adiacenti (16). Sembra effettivamente che i pazienti che si sottopongono alla sostituzione del disco siano quasi 6 volte meno a rischio di essere trattati per patologie dei segmenti adiacenti rispetto a quelli sottoposti a fusione vertebrale (17). Tuttavia uno studio retrospettivo con follow-up medio di 17 anni (18) ha osservato un alto tasso (60%) di anchilosi spontanea. Gli autori affermano: “Sebbene non sia stata osservata alcuna degenerazione del segmento adiacente nei pochi impianti funzionali (17%), questi pazienti erano significativamente meno soddisfatti dell'esito a lungo termine dell'intervento rispetto ai pazienti con segmenti di movimento spontaneamente anchilosati o che hanno subito la fusione chirurgica dopo il fallimento dell’impianto". Inoltre, secondo la rassegna di qualità migliore (19) tra quelle raccolte dallo studio del 2018 (5), le differenze tra la sostituzione del disco e la fusione vertebrale per quanto riguarda la riduzione del dolore a breve termine, la disabilità e la qualità della vita, non sono clinicamente significative.
 Solo uno studio (179 pazienti) ha confrontato l'efficacia della protesi discale e il trattamento non-chirurgico. Il gruppo del trattamento non chirurgico è stato sottoposto a un programma riabilitativo multidisciplinare di 3-5 settimane composto da esercizio fisico sotto supervisione e supporto cognitivo per far comprendere ai pazienti la natura del problema. In questi studi (20,21) il follow-up è stato a 2 e 8 anni rispettivamente. A entrambi i controlli i risultati statistici sono stati a favore della chirurgia in modo significativo da un punto di vista statistico ma non da un punto di vista clinico. Gli autori concludono: “le cause miste della lombalgia cronica, l'associazione della chirurgia con complicanze potenzialmente gravi e il notevole miglioramento nel gruppo di riabilitazione, suggeriscono che è ragionevole considerare un programma di riabilitazione prima dell'intervento chirurgico”.





Stenosi spinale lombare



La stenosi spinale è la ragione più comune per la chirurgia spinale nei pazienti di età superiore a 65 anni (22). È caratterizzata da un restringimento del canale vertebrale causato da processi degenerativi a carico dei dischi, delle faccette articolari o altre strutture (23). Comporta una riduzione dello spazio disponibile per gli elementi neurali e vascolari della colonna (22) che può manifestarsi con dolore alla schiena e alle gambe, o sintomi neurologici come intorpidimento e debolezza, nonché un deterioramento dell’andatura (24). Talvolta la stenosi spinale lombare si presenta in associazione a una spondilolistesi degenerativa (spostamento vertebrale di cui parleremo in seguito) (24). Tuttavia, per quanto si tratti di cambiamenti legati all’avanzare dell’età, non è stato dimostrato che la stenosi spinale lombare peggiori progressivamente (23). Di solito la stenosi viene trattata con una decompressione chirurgica in associazione o meno alla fusione vertebrale (5). La decompressione è la rimozione chirurgica, completa o parziale, di una o più parti anatomiche coinvolte nel restringimento del canale vertebrale e comprende: laminectomia laminotomia, foraminotomia e discectomia (24).

Una rassegna (25) riporta che dall’aggiunta della fusione alla decompressione non risulta nessun vantaggio sul mal di schiena o sulla disabilità e osserva invece un maggiore tasso di rioperazione e altre complicazioni nel gruppo sottoposto a entrambi gli interventi rispetto a quello sottoposto alla sola decompressione.

La fusione viene spesso aggiunta alla decompressione quando la stenosi spinale è associata alla spondilolistesi, tuttavia le più recenti rassegne della letteratura a riguardo (2018) concludono: “attualmente non ci sono prove sufficienti che l'aggiunta della fusione alla decompressione porti a risultati superiori rispetto alla sola decompressione in pazienti con stenosi lombare e spondilolistesi degenerativa. Pertanto, la procedura meno invasiva e meno costosa, che è la sola decompressione, è preferita nei pazienti con spondilolistesi di basso grado con dolore alle gambe predominante” (26). “La presenza concomitante di spondilolistesi degenerativa non influenza l'esito della decompressione da sola nella stenosi spinale lombare. La presenza di spondilolistesi degenerativa non dovrebbe essere un'indicazione per la chirurgia di fusione in stenosi spinale lombare degenerativa” (27).

La fusione vertebrale è spesso raccomandata anche in caso di ernia del disco ricorrente dopo un primo intervento di decompressione (discectomia), tuttavia una rassegna (28) conclude che non si riscontra un vantaggio clinico sulla ricorrenza dell’ernia discale dall’aggiunta della fusione vertebrale al solo ripetere l’intervento di decompressione.

Un’altra rassegna (29) ha confrontato l’efficacia di trattamenti chirurgici e non chirurgici per la stenosi spinale lombare e non ha trovato evidenze sufficienti a concludere quale delle due strategie sia migliore; sottolinea però che il tasso di effetti collaterali varia tra il 10% e il 24% in caso di chirurgia, mentre nessun effetto collaterale viene riportato per il trattamento conservativo.
Tuttavia diversi studi (30,31,32) hanno mostrato risultati favorevoli per l’intervento di decompressione rispetto al trattamento conservativo. Il beneficio relativo del trattamento chirurgico iniziale è diminuito nel tempo, ma i risultati della decompressione sono rimasti favorevoli a 2 anni dall’intervento in uno studio (30) e a 4 e 8 anni in un altro studio (31). Sembra che i pazienti con dolore prevalentemente alle gambe presentino esiti chirurgici migliori rispetto ai pazienti affetti prevalentemente da mal di schiena (33,34), inoltre uno studio sui fattori prognostici che prevedono il rischio di peggioramento dopo il trattamento conservativo suggerisce che la chirurgia debba essere presa in considerazione per i pazienti con claudicatio intermittente grave (≤100m)(35). Il 60% dei pazienti con questa presentazione sintomatologica infatti presentava un deterioramento dei risultati del trattamento conservativo mediamente in 4 anni. Al contrario, nei pazienti con claudicatio lieve (tra 100 e 500 m) è stato osservato un mantenimento dei risultati del trattamento conservativo per 10 anni e pertanto non dovrebbero richiedere un trattamento chirurgico precoce. Inoltre lo stesso studio (35) ha osservato che il 56% dei pazienti con stenosi lombare rimane soddisfatto del trattamento conservativo e non ha peggioramenti a un follow-up medio di 7,3 anni e minimo di 5. Un approccio conservativo iniziale sembra quindi consigliabile per molti pazienti, in quanto più della metà dei pazienti trattati in modo conservativo ha avuto risultati soddisfacenti mentre quelli con un risultato insoddisfacente possono essere trattati chirurgicamente in seguito con un buon risultato (32).




Spondilolistesi



La spondilolistesi è lo scivolamento di una vertebra su quella inferiore, di solito in avanti e più comunemente nella colonna lombare ed è spesso asintomatico (5). Esistono diversi tipi di spondilolistesi, ma nella pratica clinica prevalgono il degenerativo e l’istmico (dovuto a frattura da stress). La gestione chirurgica della spondilolistesi degenerativa include la decompressione del canale spinale con o senza fusione, mentre per la spondilolistesi istmica la fusione viene sempre utilizzata con la decompressione del forame (5).

Una revisione sistematica del 2018 (36) ha studiato il valore della fusione rispetto alla sola decompressione per la spondilolistesi degenerativa. Complessivamente, la fusione aggiunta alla sola decompressione non ha prodotto esiti significativamente migliori rispetto alla sola decompressione. Inoltre, mentre la percentuale complessiva di complicanze non differiva tra i gruppi, la fusione era associata a un tempo di operazione più lungo, a una maggiore perdita di sangue e a un più lungo ricovero ospedaliero.

Un solo studio ha confrontato la chirurgia (decompressione con o senza fusione) con il trattamento non chirurgico per la spondilolistesi degenerativa con stenosi spinale. Il follow-up è stato a 4 e 8 anni rispettivamente in questi studi (37,38). I pazienti sottoposti a chirurgia hanno avuto un maggiore miglioramento rispetto a quelli sottoposti a trattamento non chirurgico. Bisogna sottolineare però che circa l'85% dei soggetti aveva claudicatio neurogena: un disturbo del cammino di origine neurologica che sottolinea uno stadio avanzato della malattia (39) e che potrebbe indicare la necessità di trattamento chirurgico. Infatti, solo tra coloro che presentavano questo sintomo è stata osservata una maggiore efficacia della chirurgia. Infine, la tecnica di fusione non ha influenzato i risultati.

Una rassegna della letteratura sugli interventi per il mal di schiena lombare cronico (40) ha trovato un solo studio che confrontasse l’efficacia della chirurgia e del trattamento non chirurgico per la spondilolistesi istmica (41). Questo studio ha incluso pazienti (tra i 18 e i 55 anni) che soffrivano di mal di schiena o sciatica da almeno un anno. Una parte dei pazienti è stata sottoposta a un programma di esercizi, l’altra a un intervento di fusione vertebrale. I risultati mostrano un miglioramento del dolore e della disabilità a favore del gruppo sottoposto a chirurgia, con un buon risultato riportato nel 74% dei pazienti che hanno ricevuto la fusione rispetto al 43% nel gruppo non sottoposto a chirurgia. Tuttavia i dati non mostrano se la chirurgia ha migliorato il dolore alla gamba, alla schiena o a entrambe. Non è possibile pertanto trarre informazioni su quali sottogruppi abbiano beneficiato di più dell’intervento.




Frattura



Comunemente, alle fratture vengono assegnati gradi di stabilità e la chirurgia può essere raccomandata in base al grado di potenziale instabilità e al grado di coinvolgimento neurologico (5). La rassegna del 2018 è riuscita a individuare recensioni relative solo alle fratture da scoppio, che di solito si verificano intorno alla giunzione toraco-lombare, a causa di un forte impatto (incidente in macchina o una caduta dall’alto) (5).

Due rassegne pubblicate nel 2017 (42,43) hanno confrontato la strumentazione (stabilizzazione della frattura tramite viti) da sola con la strumentazione insieme alla fusione. Il follow up andava da 24 mesi a oltre 10 anni. Entrambe le revisioni hanno concluso che l'aggiunta di fusione non era associata a un significativo miglioramento degli esiti clinici come dolore, funzionalità e qualità della vita. Il trattamento chirurgico è spesso diretto a correggere e prevenire la deformità cifotica in caso di frattura da scoppio (5); tuttavia, non vi era alcuna differenza significativa sulla correzione finale della cifosi tra i gruppi di trattamento.

Una revisione della letteratura (44) ha confrontato la fusione con il trattamento non operatorio (corsetto) per le fratture da scoppio toraco-lombari. La chirurgia non è stata associata ad un significativo miglioramento del dolore, della funzionalità o del ritorno al lavoro al follow-up finale (3 anni). La chirurgia era associata ad un maggiore miglioramento della cifosi, ma il grado di cifosi non era associato a dolore o disabilità al follow-up finale. Gli autori delle più recenti rassegne sul trattamento chirurgico (45) e su quello conservativo (46) delle fratture da scoppio toraco-lombari concludono: “esiste un elevato livello di evidenza per la strumentazione senza fusione e approcci meno invasivi”. Tuttavia gli stessi autori aggiungono: “un alto livello di evidenza ha dimostrato risultati funzionali simili, minori tassi di complicanze e minori costi con la gestione conservativa rispetto alla gestione chirurgica per i pazienti senza danni neurologici”. Solo in uno studio su 50 pazienti (47) il trattamento chirurgico ha mostrato risultati migliori in termini di dolore e tempo di assenza dal lavoro rispetto al trattamento conservativo. Tuttavia gli autori affermano che la differenza tra i loro risultati e quelli degli studi precedenti potrebbe essere giustificata dal fatto che nel loro studio il trattamento conservativo non comprendeva la fisioterapia.




Metastasi



La colonna vertebrale è uno dei siti più comuni in cui è probabile che le metastasi si diffondano (48). Il ruolo del trattamento è di alleviare il dolore e prevenire o ridurre la disabilità dovuta a deficit neurologico. Si tratta comunque di una cura palliativa volta a migliorare la qualità della vita più che ad estenderne l’aspettativa (5). Attualmente le opzioni principali sono la resezione chirurgica e la radioterapia, con la radioterapia come modalità di trattamento primaria (48). Il trattamento chirurgico include la decompressione (del midollo spinale e/o delle radici nervose) e la stabilizzazione della colonna vertebrale mediante l'inserimento di strumentazione, accompagnato o meno dalla fusione vertebrale (5).

Una revisione sistematica (49) ha identificato un singolo studio (50) che confrontava la decompressione chirurgica e la stabilizzazione seguite dalla radioterapia alla sola radioterapia (101 soggetti). L'esito primario valutato, ovvero la capacità di camminare dopo il trattamento, è stato raggiunto da un numero maggiore di pazienti nel gruppo sottoposto a chirurgia (84%) rispetto al gruppo sottoposto a radioterapia (57%). Gli autori della revisione (49) chiariscono che i benefici della chirurgia combinata alla radioterapia sono stati limitati ai soggetti sotto i 65 anni di età, con fattori prognostici sfavorevoli per la radioterapia, una singola area di compressione, paraplegia per meno di 48 ore e una sopravvivenza predetta di oltre sei mesi; mentre nei pazienti con metastasi altamente sensibili alle radiazioni, la radioterapia da sola è raccomandata a meno che non vi sia una significativa compressione del midollo che compromette la mobilità del paziente, in questo caso può essere necessario un intervento di decompressione.



Conclusione

L’approccio conservativo è nella maggior parte dei casi la prima scelta nel trattamento del mal di schiena e l’operazione viene presa in considerazione solo dopo al fallimento del trattamento non chirurgico. Alcuni pazienti però nutrono la speranza che la chirurgia rappresenti una soluzione sicura, efficace ed immediata e per questo non prendono con la dovuta serietà l’approccio conservativo. Purtroppo non tutti gli interventi hanno mostrato di poter soddisfare i risultati attesi e di alcuni addirittura i ricercatori suggeriscono di evitarne l’impiego.

Riguardo l’intervento di fusione vertebrale la rassegna del 2018 conclude: “l'evidenza disponibile non supporta l'ipotesi che la fusione vertebrale conferisca un beneficio clinico rispetto alle alternative non chirurgiche per la lombalgia associata a degenerazione (discopatia, stenosi, spondilolistesi). Allo stesso modo, le prove disponibili non supportano l'ipotesi che la fusione vertebrale conferisca un beneficio clinico rispetto al trattamento non chirurgico o alla stabilizzazione senza fusione per le fratture da scoppio toraco-lombare. I benefici della fusione vertebrale rispetto al trattamento non operatorio per la spondilolistesi istmica non sono chiari (uno studio ad alto rischio di parzialità). L'intervento chirurgico per il carcinoma metastatico della colonna vertebrale, associato a compromissione del midollo spinale, migliora la mobilità e l'esito neurologico (basato su un singolo studio)”. Gli autori inoltre aggiungono: “Idealmente la fusione della colonna vertebrale per spondilolistesi, fratture da scoppio, dolore alla schiena o condizioni degenerative (scoliosi degenerativa, stenosi spinale, ernia del disco ricorrente o instabilità), dovrebbe essere eseguita solo nel contesto di studi clinici di alta qualità fino a quando il vero valore per ognuna di queste condizioni è stabilito”. Di seguito le conclusioni sulle altre possibili modalità di intervento, raccolte in base alle patologie per cui sono indicate.

  • Discopatia: sembra che l’intervento di artroplastica discale non offra risultati superiori rispetto al trattamento conservativo per la discopatia degenerativa. L’intervento di microdiscectomia ha mostrato buoni risultati nel breve e medio termine tuttavia nel lungo periodo questi risultati si sono mostrati sovrapponibili a quelli del trattamento conservativo. Infatti la maggior parte dei pazienti migliora anche senza chirurgia.
  • Stenosi: più della metà dei pazienti con stenosi può migliorare in modo soddisfacente senza chirurgia, gli altri sembrano invece ottenere buoni risultati dall’intervento di decompressione (senza fusione) anche facendovi ricorso in seguito. In generale sembra che gli esiti chirurgici siano migliori per i pazienti con dolore prevalentemente alle gambe piuttosto che alla schiena. Solo per i pazienti che presentano claudicatio intermittente grave (≤100m) si consiglia di prendere in considerazione il trattamento chirurgico.
  • Spondilolistesi: sembra che il trattamento chirurgico offra risultati migliori rispetto a quello conservativo nei pazienti affetti da spondilolistesi degenerativa solo quando questi presentano claudicatio neurogena; in assenza di questo sintomo i due tipi di trattamento potrebbero offrire risultati sovrapponibili.
  • Fratture: le evidenze mostrano buoni risultati sia per l’intervento di strumentazione sia per il trattamento conservativo, tuttavia il trattamento conservativo presenta il vantaggio di non esporre a effetti collaterali.
  • Metastasi: la chirurgia combinata alla radioterapia sembra offrire benefici ai soggetti sotto i 65 anni di età, con fattori prognostici sfavorevoli per la radioterapia, una singola area di compressione, paraplegia per meno di 48 ore e una sopravvivenza predetta di oltre sei mesi. Altrimenti, a meno di una significativa compressione del midollo che compromette la mobilità del paziente, la sola radioterapia sembra raccomandata.

Con questo articolo ho voluto raccogliere i dati della ricerca sul trattamento chirurgico del mal di schiena lombare, per renderli agevolmente disponibili a chi volesse approfondire l’argomento. Le informazioni qui contenute derivano da un lavoro di revisione terminato a gennaio 2019.
Lo scopo di questo elaborato è divulgativo e in nessun caso deve sostituirsi a un consulto medico.



Dott. Marco Gatto Fisioterapista
Certified in Orthopaedic Manual Therapy



-Riproduzione riservata-

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